Il senso che diamo alla neve

Si accorcia la pelle
si sfila in matassa di pori
si annida nel ventre del mio regredire
e tu prosegui a cuore aperto
sorridi neve sul mio incanto
a bruciare nei ricordi il gelato alla fragola
giocare a campana
ridere sull’altalena.
Ho la testa vuota e infreddolita
pura, come la campanella del primo giorno a scuola
ho gli occhi senza curvature
ho solo pareti che hanno voglia
di essere forzate a involucro
della natura che mi bisbigli e lambisce le vene.
Attraccano le gemme e vacillo come fusto inesperto
crepito al peso dei ghirigori
d’un tuo respiro, tralcio di ghiaccio
che mi spezza la voce in fuoco.
Non esiste stagione nè transizione
che sappia scrivere di un bacio sghembo
schiuso in un cappello,
non basta l’inverno e la neve che accade.
Il silenzio aspetta
parlando se stesso
che accadiamo noi.

Noi due

Siamo una vita
dilatata nella distanza
al punto da ritagliarne due
quando discutiamo
quando ci amiamo,
perché prenderci a schiaffi
toccarci in noi stessi, non è ugual cosa.
Siamo un cuore
che ha rinunciato alla sua metà
per farne nascere un altro,
un cuore, solo, si brucia
a buttar legna nella caldaia
perché due pance solchino i marosi
in prospettiva dell’ approdo.
Siamo un errore di parallasse
che desidera la perfezione
d’una simbiosi,
come quando ti brucia lo sguardo
per l’affronto rivolto al tramonto
nel volerci vedere, per forza e distinti
orizzonte e panorama
quando sarebbe bastato chiamarli Speranza.

Sei stupore

Ti scorgo
appena dietro l’angolo di un’apparizione,
incedere
come i merletti di neve sui miei capelli.
Sicuro, lieve nei passi, nelle labbra
che svestono i denti
su cui s’ acquieta lo stupore
di me, donna
evaporata in bambina.
È un trasalire di ciglia
che si incurvano in dita,
toccarti di sguardi è già una follia
mentre il respiro
intona la litania
gradita all’orecchio di Madre Natura.
Mi ascolto i sensi mutare di nido
migrare è una necessità
urgente pure al ragionare
di quel bacio, che trova letargo
nello sfiorarci.

Unicum

Cielo e mare
diverse stagioni dell’acqua
ora irascibile e selvaggia a pelo della sabbia
ora grumosa di sale per la strada dell’orizzonte.
Colori che entrano
nei colori dell’altro
lo sguardo si perde nel minimo dislivello
che non c’è, invano…
come nell’architettura spontanea delle nostre labbra.

Una volta è per sempre

Nell’abbraccio garbato del vaso
la rosa si fidava dell’acqua
corroborante fusto, foglie
anche le spine come impose natura.

La passione danza il commiato alla vita
fino al riverbero dell’ultimo petalo appeso,
l’acqua riluce del rantolo di linfa
che aspetta il tuffo di una vertigine ematica.

Rimbalza la spina
dalla mano del vaso
al fiore che l’ha partorita.

Un giorno come tanti

Chiudo le valigie.
Fuori, la storia.

Stacco ricordi
da chiodi ghiacci di indifferenza
neppure un alito di polvere
da scansarci su.

“Avrò cura di te”
lo penso anche ora che scortico il tuo ritratto
dalla mia pancia, via
questa carta da parati che fa piangere la luce.

Apro la porta
strofino i piedi sul confine della prossima me.

Un ultimo sguardo
che spera verso quell’angolo, da cui potresti sbucare
-la più semplice magia d’amore-
a sorridermi addosso “Avrò cura di te”.

La vertigine

Succede
che passi o gesti si blocchino
ad occhi sgranati, sporti appena dalla pelle
per osservare l’andatura della realtà.
Il gusto di vertigine domina
sotto la lingua del midollo
che vuole uscirmi dalle vertebre
ad impastarsi di luce.
Tremo di ipnosi
nel sentirmi addosso le fattezze
per cui posso aver certezza che sia tu.
Occhi
naso, bocca e chi la abita
mi scivola la schiena
sulle sinapsi delle mattonelle,
m’accartoccio frastagliata nei sensi
però vigile e sino all’ultimo guerriera
nello strappare un bacio sulla spalla
prima di consegnarmi cianotica
al lazo della vertigine.

Il vicolo

Globulo.

Raggrumo d’asfissia sulla tua guancia
sopendomi alla fermata di una scheggia d’ossigeno.
Sei quel dolore lancinante
che tratteggia la privazione
un segmento alla volta, senza mai terminarla.
Cucirei le dita nei palmi
a togliere il prurito di carezze che sbocciano
nel qui inopportuno
(un luogo voluto dal caso…ma non è il caso).
Rovescerei le labbra nelle guance,
con l’oscurità che benda il volerti assaggiare
nell’ora inopportuna
(il mantello del tramonto è ancora friabile).
Ammansisce l’incertezza,
al guinzaglio del mio braccio teso
strattono carezze e baci, e vittima
è la schiena che blatera sospiri
contro una casa.
Gemmano le vene
di un cobalto per cui al cielo non resta
che imbellettarsi di rosso,
mentre ti amo
e tu mi ami
qui e nell’ora di un vicolo,
capillare nella città.

Il selfie degli innamorati

Il selfie degli innamorati
è quell’indizio in più
che prova al mondo
come la miriade cellulare
asintotica al finito
generi sostanza di “meraviglia”.

Il selfie degli innamorati
è scattato con gli occhi all’insù
che sia di fronte o profilo non ha importanza
ma sempre…gli occhi…all’insù
prepotente preghiera al cosmo o a Dio
di non fare scaricare il cellulare proprio ora.