Unicum

Cielo e mare
diverse stagioni dell’acqua
ora irascibile e selvaggia a pelo della sabbia
ora grumosa di sale per la strada dell’orizzonte.
Colori che entrano
nei colori dell’altro
lo sguardo si perde nel minimo dislivello
che non c’è, invano…
come nell’architettura spontanea delle nostre labbra.

Una volta è per sempre

Nell’abbraccio garbato del vaso
la rosa si fidava dell’acqua
corroborante fusto, foglie
anche le spine come impose natura.

La passione danza il commiato alla vita
fino al riverbero dell’ultimo petalo appeso,
l’acqua riluce del rantolo di linfa
che aspetta il tuffo di una vertigine ematica.

Rimbalza la spina
dalla mano del vaso
al fiore che l’ha partorita.

Un giorno come tanti

Chiudo le valigie.
Fuori, la storia.

Stacco ricordi
da chiodi ghiacci di indifferenza
neppure un alito di polvere
da scansarci su.

“Avrò cura di te”
lo penso anche ora che scortico il tuo ritratto
dalla mia pancia, via
questa carta da parati che fa piangere la luce.

Apro la porta
strofino i piedi sul confine della prossima me.

Un ultimo sguardo
che spera verso quell’angolo, da cui potresti sbucare
-la più semplice magia d’amore-
a sorridermi addosso “Avrò cura di te”.

La vertigine

Succede
che passi o gesti si blocchino
ad occhi sgranati, sporti appena dalla pelle
per osservare l’andatura della realtà.
Il gusto di vertigine domina
sotto la lingua del midollo
che vuole uscirmi dalle vertebre
ad impastarsi di luce.
Tremo di ipnosi
nel sentirmi addosso le fattezze
per cui posso aver certezza che sia tu.
Occhi
naso, bocca e chi la abita
mi scivola la schiena
sulle sinapsi delle mattonelle,
m’accartoccio frastagliata nei sensi
però vigile e sino all’ultimo guerriera
nello strappare un bacio sulla spalla
prima di consegnarmi cianotica
al lazo della vertigine.

Il vicolo

Globulo.

Raggrumo d’asfissia sulla tua guancia
sopendomi alla fermata di una scheggia d’ossigeno.
Sei quel dolore lancinante
che tratteggia la privazione
un segmento alla volta, senza mai terminarla.
Cucirei le dita nei palmi
a togliere il prurito di carezze che sbocciano
nel qui inopportuno
(un luogo voluto dal caso…ma non è il caso).
Rovescerei le labbra nelle guance,
con l’oscurità che benda il volerti assaggiare
nell’ora inopportuna
(il mantello del tramonto è ancora friabile).
Ammansisce l’incertezza,
al guinzaglio del mio braccio teso
strattono carezze e baci, e vittima
è la schiena che blatera sospiri
contro una casa.
Gemmano le vene
di un cobalto per cui al cielo non resta
che imbellettarsi di rosso,
mentre ti amo
e tu mi ami
qui e nell’ora di un vicolo,
capillare nella città.

Il selfie degli innamorati

Il selfie degli innamorati
è quell’indizio in più
che prova al mondo
come la miriade cellulare
asintotica al finito
generi sostanza di “meraviglia”.

Il selfie degli innamorati
è scattato con gli occhi all’insù
che sia di fronte o profilo non ha importanza
ma sempre…gli occhi…all’insù
prepotente preghiera al cosmo o a Dio
di non fare scaricare il cellulare proprio ora.

Il concerto capovolto

Passi ansimanti
accompagnano alla bocca del piacere
il desiderio, nel suo primo sorso.
Trovi l’ultimo pertugio di oscurità
lì dirigi i miei fianchi
in un concerto che hai preteso capovolto.

Impeti.

E’ fatto di sostanza d’impeti
ogni atomo che il metronomo assegna alle nostre labbra
fino allo sfinirsi nell’inevitabile
rallentare.

Denso.

Il cielo è denso
affollato intorno a due corpi
goccianti di rugiada che non ha fretta
di ritrovare la strada dell’alba.

Gli occhiali

Rocce
marroni e vive,
da un sussulto di ciglia
scardinate giù, nel crinale del passato.
Hai così
lo sguardo che svelo
dalla manna alitata sui tuoi occhiali
umida come un porto
che nell’alba si veste di latte.

Cuore incompleto

Privi il cuore
della forgia di un’onda,
chino
nell’estasi di salsedine
che ti commuove lo sguardo coi colori del mare.
La mano è l’ultima insenatura
raccoglie questa pietra
incompleta per le mie dita
che inventano alveoli
al tocco della rinascita.