La silloge Ossa di nuvole di Veruska Vertuani delinea un fondamento poetico femminile, ritmico, nutrito da figure retoriche del suono, sintattiche e semantiche, idonee a evocare il profilo di un’infanzia giunta all’età adulta attraverso un dettagliato e continuo varcare del tempo, personale e storico, naturale, eppure accorto e consapevole. In un simile intervallo, se da una parte il taciuto è ciò in cui la sonorità del messaggio non trapela, d’altro lato si sente l’eco di una musica, o una sorta di danza, le quali hanno facoltà di favorire l’ascolto di una voce lì a cantare, tanto pura quanto più essa risalta nel mezzo della melodia, a volte drammatica, di un destino non scontato, ma rigenerato momento dopo momento da rinnovate sfumature della verità, o del sogno avverato.
Accade così di riflettere su come un’analoga logica del tempo, di sviluppo in progress, in crescita perenne effettiva e non astratta – direi, in qualche caso quotidiana – possa aiutare oggi e sempre a conoscere il mondo e noi stesse, noi stessi. Benché un tale quesito non riesca, di frequente, a discernere un contesto dove rintracciare risposte soddisfacenti, senza dubbio Ossa di nuvole ne esibisce validi e minuziosi spazi significativi di realizzazione: innanzitutto, nell’area di un lessico scivolato via dalla tabula rasa di ogni parola-immagine piatta e codificata nel già dato, nell’ormai noto, nel sistema stereotipato, permettendo di inserirsi in un intreccio simbolico, musicale (mai dissonante, anche se magari alternativo), capace di “svelare” alla sensibilità del lettore nuovi orizzonti, itinerari mutati, nell’avvenire immediato e remoto delle ore. È dunque «sufficiente», in un divenire orario del genere,
che le nuvole
svelino l’arcano con cui fu dipinto il cielo
è buono se il vento rafforza le mie narici del tuo profumo
ma sai che perché io torni eretta
l’ottimo è dei tuoi baci sulla mia aura,
una volta all’ora
un’ora alla volta.
A condizione, però, lo chiarisce l’incipit dell’omonima poesia, Una volta all’ora io possa “acchiocciolare” «le tempie alle ginocchia / e con le braccia strette alle gambe» aspettare «un respiro di aria nuova».
Meditando con la Vertuani sul fluire di «buio o luce», è conseguente associare alcune celebri quanto impegnative pagine dell’Analitica dei concetti nella seconda parte della Critica della ragion pura (1781), dove Immanuel Kant si sofferma brevemente sulle forme del sensibile. Queste ultime sono le medesime ad assumere, nell’Estetica trascendentale (nell’ambito di un tipo di Ästhetik non relativa, di certo, al bello trattato nella Critica del giudizio – ästhetischen), l’identità inquietante di un assoluto di natura sensoriale, all’altezza di divenire intelligenza del sentire in fieri, a lato di ulteriori caratteri preliminari. Di essi il più notevole è l’unità solida di spatium et tempus, precaria e cangiante, adeguata, oltre a fornire messaggi intuitivi dei sensi, ad acquisire un impianto di “intuizioni formali”: indizi pertinenti, quindi, ad aiutare a comprendere la sfera interna ed esterna al soggetto, a “conoscere” e “riconoscere” in noi e intorno a noi.
Pertanto, è proficuo e lusinghiero, accogliendo l’invito della Vertuani di voler «dare voce ai gesti» scrivendo, accettare l’incarico che la poetessa intende condividere: ovvero, promuovere la nascita di un “equilibrio” pari solo al “transito” tra un passo e il successivo dell’esistenza, tra una metafora e l’altra dei versi, in grado di sconfinare nell’innocenza. Come? Lo svela, appunto, Memorie di innocenza:
Quando il cielo cade o viene preso a schiaffi
quando lo sguardo si fa livido e fibrillo una via di fuga
qui, senza soluzione, penso all’innocenza.
Quella dei giorni che sapevo i numeri per contarli
e avevo dita e fiato di pesche con lo zucchero
tabelline a cadenza di passi, quanti per arrivare a scuola
dove nonna mi lasciava la mano.
Del resto, persino Agostino d’Ippona, nelle Confessioni scritte nel 400, riteneva l’elemento della temporalità un riflesso dell’anima, la coscienza stessa dilatata ad abbracciare, con il presente, il passato concluso e l’avvenire ignoto: il χρόνος-crònos, perciò, è una dimensione del soggetto, e lo spirito umano assume un ruolo consono a rintracciare un’intrinseca e unitaria coesione nel pluralismo delle esperienze esteriori, disperse nel mondo e nelle singole individualità. Nondimeno, il geniale Padre della Chiesa, nel famoso XI Libro, domandava: «Cos’è dunque il tempo?», e poi, con grandiosa umiltà, rispondeva: «Se nessuno m’interroga lo so; se volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so».
Nella raccolta della Vertuani, l’esemplificazione di cosa sia in concreto il nesso temporalis, nonché lo spazio trascorso, è sostituita da un suo oggettivarsi ammaliante, indelebile. Leggiamo, infatti, in Un po’ in preghiera:
È in lune come queste
che spingo la bocca al cielo
un po’ in estasi un po’ in preghiera
per le ore che avemmo insieme.
Buio o luce non ci importarono
perché eravamo aura e nei baci suggellammo due ampolle
dove, interminati, facemmo tempo.
Nel farsi tempo della poesia moderna rientra di sicuro la silloge Il sentimento del tempo (1933) di Giuseppe Ungaretti, dove il tema principale coincide con la percezione dello scorrere di una dimensione specifica tra passato e presente e del rapporto tra la finitezza dell’uomo e il senso dell’assoluto (ad esempio, nella poesia della Vertuani la «bocca» si accosta al «cielo»); anche se, da un tale simbolismo, scaturisce la riscoperta della fede, aprendo un orizzonte peculiare del messaggio – sebbene non esclusivo – circa il minuscolo e l’illimitato, la purezza e la contaminazione. Nel Novecento complessivo, d’altronde, e nei decenni inziali del XXI secolo, il dilemma temporale risulta decisivo nella riflessione estetica laica sul mantenersi lontani dalle colpe e vantare l’innocenza rispetto alla morte e alla libertà negata, entrambe dilaganti.
In Prima-vera volta, al riguardo la Vertuani illustra:
Nei petali di compiersi all’inverno
ammiro il coraggio e la freschezza
come il corpo di una vergine
pronto al sangue per farsi primavera.
Nel patrimonio letterario in genere affiora, appunto, un oscuro e allarmante contrasto tra l’iter cronologico ritmato da computer e orologi (nella Vertuani, la citata scansione delle ore nel microcosmo dell’amore, dell’erotismo), misurato dallo stress quotidiano, dai tópoi necessari o imposti, e la quantità non soggetta a misura, cioè la profezia solenne, lo svelamento epifanico, l’“istante opportuno” (il καιρός-kairós degli antichi Greci), lo scorrere precipitoso e ineffabile, l’attimo fuggente: in una parola, l’inesausto carpe diem. Così, leggiamo nell’Ode XI del Libro I di Orazio, forse risalente al 30 a.C. e indirizzata alla fanciulla Leuconoe: «Non chiedere, non è concesso saperlo, […] il destino che a me e a te hanno dato gli dei; […] sii saggia, filtra il vino e tronca nel breve spazio le troppo lunghe speranze; mentre parliamo, sarà già fuggito il tempo invidioso: cogli l’attimo e affidati meno che puoi al domani».
Ma l’attualità dell’ultimo secolo ha condotto alla sensazione tipica della nostra poetessa: nello scrutare la bellezza esterna, chissà, succede di rimanere annientati dalle disgrazie superate o da quelle imminenti.
Nei versi di In esilio da mio figlio (diciannove marzo), la Vertuani confessa:
Una foto dove ridi
ce l’ha in tasca la battaglia per cui firmo
per cui devo e non vorrei, davvero no, stare
… in esilio da mio figlio.
Di conseguenza, possiamo apparire coinvolti in un irrefrenabile impulso di chiedere all’hic et nunc in progress, alla storia, in cammino frenetico e inaspettato, un’unità di misura per conoscerlo/conoscerci. Già il grande Mario Luzi, nel severo schematismo delle metafore dell’età ermetica – tendenza stilistica non del tutto estranea al repertorio di Veruska Vertuani – tentava di avanzare nelle regioni della conoscenza dell’essere, cercando soluzioni nella continuità e nella ciclicità degli accadimenti umani e naturali, come un’ebbrezza di giorni inaugurati e conclusi. Ciononostante era assente in lui, per scelta, la condivisione dell’ideologia kantiana, che invece ritroviamo utopica, seppure viva e vitale, in numerose pagine della Vertuani. Alla base dell’enunciato di Ossa di nuvole, quasi a epigrafe, potremmo apporre quanto scriveva il filosofo prussiano: «Nessuno può pensare a un “prima” e a un “dopo” se non accetta l’idea che esiste una realtà, il tempo, che gli permette di farlo».
È il trasalire della Vertuani, in piena notte, osservando «l’alone del bicchiere sul comodino», quasi «circolo d’acqua senza lancette». E allora: «Il tempo che non ha contato», si chiede, «è un tempo non vissuto o mai esistito?». Per la strada dell’esperienza, dunque, dominerebbe il caos, allorché ne segnassimo ex-abrupto inizio e fine, ignorando quanto essi da soli non esistano, se non a patto di essere verificati – nei “ritorni” compiuti con imparzialità, ossia “silenziosamente” – in pause temporali pregresse, in una sorta di tempo preesistente che li ha dotati di possibilità reali e, ancora ricordando Sant’Agostino, ha reso attiva e cosciente anche la nostra anima. Lo spazio-tempo della Vertuani somiglia a un soffio nel vento, avvertito dalla sensibilità, potenziato dall’euforia. In Come un orologio scaduto:
Due lancette le disegno io
– così, a sensazione –
e me ne sto a guardare
finché non suona l’ora
che mi sento dentro.
Ancora, in Sillabe di amore il tempo sembra un piano in movimento ininterrotto a cui appoggiarsi e, per fermarlo, pare urgente (o doveroso) sostare, appunto, a “sillabare d’amore”:
Starei solo nei giorni
di carta e penna in mano
starei a leggerti quei piccoli nodi sul bianco del lino
come fossero capitoli essenziali alla storia.
Sceglilo tu il nome
dell’alba seduta in balcone
dell’acqua che rinfranca il fiore nel bicchiere
interrompi ciò che scrivo ciò che leggo
e a chiare, dettate lettere, sillaba l’amore
come non mai.
E poi qualcuno sostiene che la scrittura sia distinta dalla vita…
Veruska Vertuani
Ossa di nuvole
a cura di Giusy Carofiglio
postfazione di Marco Grosso
Nettarg Editore in Caserta, 2017, pp. 68