Il mio veliero (Marco Ambrosi ed io)

Parlami del mare…
quel poco che basta per disertare
mentre l’ancora sfugge all’abisso,
guarda il mio faro
che illumina la non ragione.

Vorrei essere un veliero
per farmi cullare dalla sua forza
e se il coraggio annega
vorrei distrarmi per l’ultimo abbraccio

Salsedine
melodia di squame
abbasso il mento
che richiama la tua chioma fremente

delirio di narici contratte
offendono il mio respiro
che muta

Non conta il mare
neppure le necessarie convinzioni
non conta ….nulla

Keep calm &use a cold water (una celia)

Cala l’imbrunire sul campo di grano
meritato riposo per le vene del re
che cinge di baci il collo della sua regina.
Assoluto è il guardarsi
tranne che per l’atomo d’occhio
rivolto all’acquitrino, in cui piccineria
ribolle di fame.
S’acciglia il sovrano
ma pronta è la carezza di lei
nel sussurrargli…

“Che mangino brioches!”

Passo a due (Marco Ambrosi ed io)

Entra con il solito fare
e annuncia la sera,
la sua voce
non ode l’umore che cambia
e lascia parlare la sua tela dipinta
nel crepuscolo
di una dolce promessa.

In estasi
la veste femminea
depone all’orizzonte la cangianza
e sullo scoglio sboccia un brivido
di natura ormai terrena
perché sia saziato dall’ombra
che langue l’attesa
di riascoltarsi uomo.

Un anno in più (ad Andrea, per i suoi 39)

Un anno in più
sui tuoi piedi di bimbo
orme a contare
quanto manchi al Natale
quanto alto debba essere
il salto per far compagnia
ad un aquilone.
Scarpe senza la voglia
di andare a scuola,
scarpe da allacciare:
il primo compito che non vedi l’ora di fare con tua madre.

Un anno in più
sui tuoi piedi di uomo
orme a contare
quanto manchi al riposo
quanto alto debba essere
il salto per far compagnia
all’amore che brucia.
Scarpe senza la voglia
di andare a lavoro,
scarpe da allacciare:
la prima passione che non vedi l’ora di fare con la tua Danza.

Ho danzato

Ho danzato su un palco in pendenza e ho dovuto mettere le briglie alla mia inquietudine per non rotolare; su un palco in piano ho preso a braccetto gli imprevisti e burlato la bonaccia.
Ho danzato sul legno, sul linoleum, sul cemento, addomesticato i piedi con vesciche, rese le  unghie come foglie, cangianti nel colore e nella sopravvivenza.
Ho danzato su ogni granello di sabbia e le tue braccia hanno impedito che mi graffiassi, lasciandomi la carezza delle nuvole.
Ho danzato sotto il sole di ogni colore ed intensità, cocente, svogliato, ad intermittenza. Mi sono lasciata scaldare, imparando a leccare le ustioni.
Ho danzato con le intenzioni, prima che con i passi, dietro scudi neri e sentito i pori filtrare l’adrenalina.
Ho danzato con una pozione addosso, il mio e il tuo sudore, generata da quella pazza alchimista quale è la Passione; con il vento che coreografava le vesti e in abito da sera. Mi sono sentita diadema sul tuo cuore.
Ho danzato nell’intorno dei tuoi occhi con labbra e impronte di consolazione, ma ne avrei fatto volentieri a meno.
Ho danzato con dita colorate di colla, carta crespa, pennarelli, con cui ho inventato le mie stelle.
Ho danzato in fila alla cassa, in bagno, dietro la tavola da stiro, sotto la doccia, guardando il rosso di un semaforo, nei sogni.
Ho danzato con calzari intrecciati di poesia, dubbi, fallimenti, rinascite.
Per ogni dove, nel corridoio dei miei silenzi.

Appuntamento nel buio (racconto breve)

“Cosa manca? Ah! Il budino!” bisbiglio mentre mi dirigo verso lo scaffale. “Ti pareva, quello alla crème caramel sempre in alto lo mettono, uff!”. Mi arrampico sui tacchi, ci son…va via la luce.
Lo spaesamento dura un attimo, mi accanisco sulla confezione, ce la sto per fare…“Ahi!” Una tipa mi sale sul piede con uno stiletto di 24cm, a giudicare dal dolore che mi fa ritrarre. “Oh, scusami, non vedo niente!” cinguetta lei con voce da oca.
“Ma ahi! E due!” mi arriva un graffio sulla mano, ma che artigli ha questa qui? Mi afferra con premura la mano offesa. “Scusami, queste unghie finte sono bellissime, però, in effetti, sono armi micidiali. Non vedo l’ora che ritorni la luce, così le potrai vedere…glitterate…una favola! Ah, io sono Francesca!” spara una raffica di vocali e consonanti messe alla bell-e-meglio e mentre le pupille si stanno abituando al buio, intravedo le altre armi micidiali di Francesca, due seni da urlo stipati in una maglietta stretch. Mi tiene ancora la mano.
“Sono Eleonora” mi affretto a dire, così me la lascerà, la mano. Invece passa il pollice sulle mie nocche e di colpo sento il braccio imprigionato da brividi, come serpentelli che rapidi si rintanano fin nel nucleo del silenzio.
Sto zitta, zittiscono i pensieri, ho il viso che avvampa.
Mi divincolo dalla stretta e mi affretto a parlare per nascondere l’imbarazzo. “Questo black-out non ci voleva proprio, la mia pausa pranzo sta per finire, devo per forza passare per casa a lasciare i surgelati.” Ecco, appunto, i surgelati, anzi sarebbe meglio dire i ‘fu-surgelati’, visto che mi si stanno sbrinando sui piedi! Gocce fredde percolano dai fori del cestino che faccio cambiare di angolazione, fino a portare la cascatella refrigerante sull’alluce malconcio. “Ah, che meraviglia” sospiro.
“Hai ragione, il budino alla crème caramel è meraviglioso” Francesca interrompe con la sua banalità la mia estasi. “E’ insolito che ad una donna piaccia il crème caramel, col suo fondo amarognolo si addice di più ad un uomo”, commento, unendomi a Francesca nella sagra della banalità. Ho la scarpa fradicia, la tomaia è viscida come una medusa spiaggiata, la pausa pranzo sta per finire, devo passare per casa a cambiarmi, prima delle 19 non riuscirò ad uscire dall’ufficio… “Maledizione, ma che ore saranno?” impreco mentre frugo nella borsa, alla ricerca dello smartphone che non c’è.
“Ottimo, ci mancava solo questa! Ho lasciato il cellulare sotto carica in ufficio! Hai per caso idea di che ore siano?”. Mi volto verso Francesca, che nel frattempo si è messa seduta, con la schiena attaccata ai cartoni del latte a lunga conservazione, il tablet appena acceso che le illumina il viso. Quegli occhi, la fossetta sul mento… “Frà?”-esito-    “Francesco?” Non so perché il nome del mio primo ragazzo si tramuti in domanda mentre mi soffermo su una cascata di ricci neri da cui spunta un orecchino esagerato.
“Ciao, Elenoire.”
Lui era stato l’unico a chiamarmi così, l’unico ad avere studiato francese: non ho dubbi! E’ il mio Francesco inglobato in un corpo super femminile, decisamente più del mio! Si alza e mi si rivolge con tono sereno: “Ricordi quanto ti piaceva ‘L’elefante e la farfalla’, quante volte l’abbiamo cantata assieme? Ecco, il mio cuore di farfalla si è potuto finalmente ricongiungere al corpo che avrei sempre voluto.”
Le carezzo la guancia, poi indugio sulla fossetta del mento, come avrei fatto anni fa. Le sue dita scorrono sulle mie nocche.
Si accendono i neon del supermercato e non so per quanti attimi rimaniamo così.
“Lascia il cestino con tutta la spesa e andiamo a casa mia, ti presto un paio di scarpe, mica vorrai presentarti a lavoro con quelle due spugne lì!” si desta Francesca, ed io con lei.
Cerco un posto dove poterlo poggiare senza dare nell’occhio e ci dirigiamo verso l’uscita, sottobraccio, in allegria. “Prestami il cellulare, chiamo il capo per avvertirlo che oggi pomeriggio me lo prendo di libertà” le dico, mentre ci allontaniamo anni luce dal caos.