Come un orologio scaduto

Mi sveglio a sensazione
non so quanto distante dal cuore della notte
che mi rintrona le tempie di appunti
e secca l’inchiostro che ho in gola.
L’alone del bicchiere sul comodino
un circolo d’acqua senza lancette
un orologio che non segni il tempo può dirsi scaduto?
Vorrà prendersi una pausa – deglutisco
ma il tempo che non ha contato – deglutisco
è un tempo non vissuto o mai esistito?
Deglutisco.
Due lancette le disegno io
-così, a sensazione-
e me ne sto a guardare
finchè non suona l’ora
che mi sento dentro.

Kafka

Ciglia, capelli
e tutto quello che somigli alla tela di un ragno
datemelo, per legarmi al mio uomo
schiena a schiena ed essere un buffo insetto
votato alla terra nelle ore di luce
votato alle stelle nelle ragioni del sogno.

Lasciarti andare

Ho timore
tra le dita il vento
e io senza timone
beccheggio in ciò che ricordo.
Niente di nitido,
sono i colori afferrati di sguincio
che mi fanno voltare il fiato e lo fanno sostare
mentre vorrei che ti soffiasse in bocca
quel forte che basta per lasciarti andare.

I passi del sole

Avvolta dalla bruma del sogno
scorcio l’alba al mio volerti
e dilato le costole con respiri incompiuti
per farci entrare come frecce le tue dita.
Sto per lasciarti andare
nei lineamenti che vestirò da sveglia
ma un sibilo, ancora uno scagli
su quella vertebra che mi fa ponte col peccato.
Ora capisco
i passi del sole.

In terra

Il vento arpeggia i rami scarni
le siepi senza discendenza di bacche
per ninnare il tempo in cui preparo
le dita a vene
chiudere il cuore
la pelle a terra
io distante il cielo più un tronco
dalla vita.

 

 

Riverberi di noi 2.0

Il suono punteggiato delle gocce sparpaglia la terra
e freme il vento, con le tue cicatrici in pugno
batte alla mia finestra.
Che promessa vuoi
neppure so quando smetterà di piovere
e nessuno è mai vissuto abbastanza
per dire che il sempre non finisce mai.
So però di una storia, il suo lieto fine lo custodisce il sole
e quando ti guarderò coi tuoi occhi
e quando mi guarderai coi miei occhi
saremo la chiave che non teme il fuoco.

La mosca

La mosca, sul bordo
succhia una stilla di caffè
sfrega le zampe e non so se ricambi
lo sguardo del mio collo inclinato
o se continui a farsi i fatti suoi
sul bordo della tazzina calda
su cui dirige le piccole ali a farmi uno scherzo di libertà
proprio quando vorrei, coi miei occhi
camminare oltre quella parete
profumata di menu.

Il vecchio alla panchina

Il vecchio alla panchina
racconta di pantaloni mai stropicciati
perchè le gambe erano sempre all’impiedi
nelle danze la domenica pomeriggio.
Sbriciola un po’ di mollica, dalla tasca spunta un becco bianco
e solitudine plana, si nutre e ripiega
nella silenziosa dignità del fazzoletto.
Il vecchio racconta le carezze
sui nodi del legno, come fossero i seni di quella fanciulla
(per cui memoria non fa fatica)
e raggruma le labbra in ansia
nel passare gli occhi su una piccola crepa, un’orma del tempo
che solo ieri non c’era.
Un’altra foglia è caduta sulla pelle
una lentiggine su terra ormai infertile
ma il vecchio alla panchina racconta
che lui guarda sempre oltre i palazzi ingrigiti
e lei dovrebbe fare altrettanto
oltre i corpi che la tarpano
dove il cielo acceca.

Lo squisito dolore dell’amore

Non è perduto
il tempo del metronomo
poco sopra le mie ciglia nere, a dettarne chiusura
sulla rima bianca. Un tempo di profitto, in cui sporgersi dai piedi
e tentare il sentiero dei sogni affiorati
tra scrosci di lacrime e sassi di inciampo.

Non è perduto questo tempo
poggiato alla finestra come un foglio bianco
da cui luce trapela in focolaio e si irradia
libera di ricalcare
l’anima che rimane
asciugata la pioggia.