Mi disse papà

Fai un incidente
se non guardi almeno due automobili dopo il tuo naso
almeno per strada capita così
-mi disse papà-.

Negli occhi di una finestra
il tuffo è via e verità,
se arrampico la vita sui rami più vicini
avrò armadi zeppi di gogne e forconi
senza sapere del profumo di lavanda.

Se sguinzaglio la vita poco più in là
la vista avrà invece ferite le mani
per aprire cortecce e sdoganare il cielo da illazioni,
avrà piedi pesanti a portare un’ombra scheletrica
a forza di passeggiare nei recinti d’abitudine.
Nel dare corpo alla luce
sarà comunque un relitto, una crosta muffita nella madia
però salva e libera da resine.

Il coraggio abita solo il dopo.

Arrivi a un punto

(in cui guardi il cielo solo perchè ti stanno tirando per i capelli)

Mi piace sentire il fulmine arrivare addosso
e non rifuggo la bonaccia che lecca via gli scampoli.
Ammiro l’equilibrio delle foglie a pelle d’acqua
ridotte all’angolo da sentenze di ghiaccio
ecco perchè t’ho fermato il petto e mi sono chinata
in cerchi concentrici, a indorar loro l’eutanasia.

Che ne sai tu, non c’eri mai
nelle prigioni di capelli
che mi facevano lavare la fronte nelle ginocchia.

Stiracchiavo i sogni
e le foglie i loro bordi
per essere sempre più vittime della macerazione;
prendevano fiato sincronizzandosi con la legge di Archimede
fino a non poterne più.

Cagliate nell’acqua
la mia poppata quotidiana era dei colori del cielo
appena poco sotto alle mie orme
appena poco sopra al dovere di una piscina.

Dietro di me
la tibia cozza sulla schiena
ti abbassi e mi carezzi un grimaldello
sul collo.
Riesco, posso e voglio
sentirti negli intenti di una nenia
che evapora la propria voglia
a circuirmi i lobi.

Sai di cioccolata.

Carezza

Carezza, la lacrima
anche se ha sbagliato nel dosaggio salino
del “quanto basta”, scivola e brucia appena
sulle metafore a forma di schiaffo
solca una ruga del volto
segna una stimmate sul palmo della tua colpa.

carezza, il cuscino
preliminare dell’alcova
quando ci si guarda negli occhi,
già rintocca
di canzoni donate per cullarmi i sogni.

Carezza, la Natura
al di là delle stagioni
che hanno il dovere di accadere
senza risparmiarsi, dispettose e intransigenti.

Sui sassi
allineo passi
fino alla carezza di quella riva
per cui tu sei l’Altrove.

Acrobazia

A tacchi nudi
su una zattera di sale.

(Provaci.)

Coi tacchi a spillo
su un binario dilatato di sole.

(Provaci.)

Una scarpa da ginnastica
e una col tacco
mentre annaffi il terreno col disagio.

(Provaci. E’una frana l’intorno
rubi un sorriso
paghi con rupi)
Vòlati la vita
in punta di piedi
indossa calze di rispetto
verso i tuoi giorni
e degli acrobati che sfiorerai.

Come i sogni che scivolano dal naso

Delusione
nutrita a latte e amianto,
guerriera
in cui c’è ancora del buono
nella ciotola posta al centro
di distanze da saziare.
Armature, cocenti e inanellate nel plotone di esecuzione
che scaglio, a ginocchia giunte.
Chiamala Madre
chiamala Matrigna
ora è la dignità che guida ciò che è affilato
sia una lama o sia un sorriso.
Armi
di distruzione
per la massa
-fossi anche solo tu-
che mi viene addosso
a passo differente da un fiore.

Voce

L’orecchio chino sulla spalla.

Ascolto la tua voce
con sguardo perso
ansimante di passi
nella dimensione contigua ai nostri contorni.
E’ un letargo impossibile
trovare pace nel saziarmi con te
qui e ora.
Lo penso io
e lo pensa pure una farfalla
che dura le dita di una settimana.

Neve salina

Libertà,
anche se costa il prezzo di una burrasca.
I miei occhi aggrappati
respirano questo.

Libertà,
anche se annego al prezzo di una burrasca.
Respira questo il mare
aggrappandosi ai capelli.

Mi tranquillizza
il sospetto che ci sia un cielo
a comandare la neve e il plotone delle onde.

Un fiocco di sale
lecca e non brucia
le cuticole che accerchiano rimpianti.

Col freddo ce sta tutta

Geroglifici
di cioccolata.
Materia quasi nera
sulla pelle in eclissi dal sole.
Sovverti gli studi
di pagine meditate e sfogliate
con questa manciata di dita che ora sono impalcatura
per gli origami di corvi
che affondano, decollano
e planano
sulla mia schiena.

Non c’è un perchè

Nelle radici del mio respiro
c’è iodio
la pelle è disadorna
ma non di talloni
usati come bitume di infima qualità
nel rattoppare incidenti
per poi divenire trabocchetto, in caso di prime lacrime.
Manciate di sale
vomitate sulle tue catene,
crepe che solo io osservavo
come se le altre stagioni non esistessero
come se un brivido di fotosintesi
fosse la guarigione sintetizzata in laboratorio.

Inizia il mare
appena dopo il bordo da cui si sporgono gli occhi
però non c’è sabbia
sotto i piedi
tra le dita
nella gola, per soffocarmi il fastidio che davo.

Un giardino
già sbocciato di promesse
un’armonica, in un filo d’erba.
Riesco a crederci
anche se non la so suonare.
Imparo in fretta.