Occhi verdi

Mi angoli la schiena
in metrica e divini dettati
smussi la mia carne
in ninnolo selvatico
allacci in morso quel tuo verde sguardo
e mi fai stella, massiva di piacere
ogni delirante volta
in cui mi riluci.

Il passaggio

Quante occasioni hai lasciate
nichelini di resto sul piatto offerto.
Quanti treni
ne ho fatti percorsi a sfiorarti
a scansarti sei abile
il predellino accogliente per te ingombrante.
Anche le mucche sono stufe
satolle al solo passaggio
e i boomerang, se lanciati tutti insieme
vanno contro natura, e non tornano sui loro passi.

Da qui

Sputo febbrile
influenza dal cielo
panni amidati al monossido
ossa trasudate di spifferi.
Pure se la porta è inchiavata
ogni corpo della città è un malanno
che non scarnifica mai
una roba sdentata che ti saluta
con la voce della vicina
quel frenulo tra quiete ed assenza
da recidere a gridare “questa è la mia vita”.
Da qui
piante trascurate
e linfa solo nei cadaveri.

Aldidove

Si cerca lo spazio tra carne e vena
il vuoto a perdere in bossoli di polvere medicamentosa
ci si occlude una narice per stare folli
e giù nel pozzo, a ingozzarsi
dell’ombra estrema data poco prima
quando una lama spana la vita
e l’occhio che muore cerca il suo dove.

Nella vasca

Poggiata all’ascolto
mi canti l’amore
dissipo brividi
e l’acqua spuma.
Un palmo di squame
dipinge il soffitto
e riverbera.
Mentre piove il rubinetto
raccontami cos’è questo diluire
di tempo nelle ossa.

Lasciarti

A lasciarti
un attimo impiegherebbe più che la sua voce
a convincerti. Indugerebbe
dove il ricordo si fa epistassi
e godrebbe a vederne la testa all’indietro
farsi morire col suo stesso sangue.
Indugerebbe
sul tremito delle mie cosce
per distinguere il piacere dal pianto
nel saperti per l’ultima volta.
A lasciarti in una bolla di vetro
metterebbe poco, in una bolla di vetro
che fa sempre stagione
e lì arrivarci con gli occhi
a sapere che pur nella sua neve
a mangiarti come pane, ci sarai.

La chiamano luce

La chiamano i fiori per diventare polpa
a imbellettare dita di succo opalescente,
la chiamano gli uomini tra i filari
perché ogni grappolo trovi tramonto in botte.
La chiama Natura
il sole indugia carezze.
Un silenzio.
Poi…Madre.

I jeans

Vorrei correggerne la taglia
quella pecca di colore tra gli inguini pulsanti
quando maggio anelava fili d’erba
e ti ero di auspicio.
Fosti, ma solo in accenno
leccavo qualunque dove potesse darti un senso
fino a scoppiare
fino a smagliarmi in così tanti alvei
che il sangue tra-spirò.
Ora che ne osservo la pelle
balzi in mente come il profumo di cui sa una gruccia
un po’ di ferro un po’ di legno
pronto a combattere per la Storia, eccetto una.
Ti lascio in un angolo
nel cielo dei jeans
pronta a nuova stoffa, a com-baciarci.

Fragile mare

Ti ho portata
nel dove che mi è culla
a cercarmi la pace dentro
quando la giornata è sguincia
per luna o per stagione.
Ti ho adagiata, rossa
sei quel tramonto che il mare non conosce
e che io non saprò mai
perchè vivi in ogni sottopelle
pure, in quello delle cose.
Pulsazione…oggetti che mi abbracciano
e scorro bambina, nel mio stesso sangue.
Pulsazione…
fino a quando i ricordi si giocheranno ai dadi il cuore?