La gemma

C’era il buio
c’era ottobre ad iniziare quella gemma.
Parole che non potevo danzare
sugheri sempre troppo morbidi
per conservarci afflati.
Dicevano, e ancora dicono che perciò gemmò poesia
tu a tramandare venti
io a non capire, tranne un po’.
Non avrei voluto, neppure a ciò che vidi
una gemma a malignare sul tuo esser donna.

Fatica

Quanto pesa in passi
il tuo capire verso il mio sentire
quanto pesa d’orma
la sabbia che più non sa il punto di segatura
-a forza di sfridarmi il cuore-
e appende alghe sulle pareti di una clessidra
a rinverdire quel Tempo in cui ero fiore
contratta clorofilla tra le tue voglie.

Muri

Muri spinati
non un bubbone di petalo
muri di fumo
senza l’oltre che finisca negli occhi.
Muri di latta
impronte di razza non tua
muri di stracci e viveri
ecco come è fatto il mio dio.
Muri senza più lucertole
-calore inesploso-
il sangue non ha poi così freddo
a non scorrere in mani che eviscerano.

Grumo

Cicale
e nebbia dalla camminata stanca.
Pioggia a coriandoli
osmosi che disegna plettri
a suonarci l’asfalto.
Non so cosa ci faccio
in ogni dove,
non sto in ogni
ma solo dove il cuore mi raggruma.

Chi sarà mai?

Dal Tempo
-pensato a tavolino-
è fuggito il poeta.
Girovaga in fazzoletti di spazio
prende corpo in ogni intorno
inciampa –e lo dice- sui sogni
raccoglie e li conserva in bislacche tracce
di inchiostro.
(“Di che colore lo vuole?”
“Del colore dei giorni.”)

(di)speranza

Stoffa a carcasse
scarpe camminate da fossili
che hanno lo stesso DNA della sabbia.
Ossigeno è quel vento
con cui migrazione si plasma
il torace è scrigno di dune.
Soffia tra le costole
sfregia l’eco in crepaccio
la (di)speranza.

Sponde

Amaro
papilla di sale nel barattolo del diniego.
Dolce
un cappello di raggi a cadenzati passi sui miei occhi.
Sto in giorni dal gusto imprevedibile
un piatto caldo lo avrò sempre
ma da bere…
lascio sia la Pietà a mescere Lete*
-sia fatta la sua discrezione-.

* Lete è il fiume dell’oblio, non la marca di acqua minerale.