Alla mercè dei sogni

Mi sento piccola
un sassolino liscio nella mano dei sogni.
Poggiata in acqua
affondo e impasto sabbia
incornicio paste vitree e pulisco la condensa del dubbio.
Suddita dell’onirica mente
pettino la notte
e i fiori caduti sono i sogni del cielo.
Pure lui è umano
deve poter vedere i sospiri farsi petali e sostanza
per continuare a sperare.

La pozzanghera in cielo

Testa a terra e schiena dritta
stare in piedi all’incontrario
annaspare le gambe in cielo
pedalando aria.
Si poggia sull’alluce
una biglia di sapone
illusoria prospettiva nel sembrare calpestarla.
Stenta la membrana ma non cede
sa dove deve arrivare.
Fattelo indicare da quel dentro rimasto bambino
“Come muore una bolla di sapone?”
“In pozzanghera, appesa al cielo.”

Cambia o non cambia

Cambia strada, lo sbaglio
ogni volta che sente montare i brividi
in piccole montagne, cuspidi
fino al cielo di ciò che è giusto.

Non cambia mai strada, il brivido
ogni volta che sente montare lo sbaglio
diventa cuspide, fino al cielo di ciò che è giusto.

Cambia strada, ogni volta che li senti.
I miei brividi raramente sbagliano.

Baciarti gli occhi

Tratti sterrati…
quante vite mi segni sulle labbra
che fanno breccia nel tuo carnoso nettare.
Un gomitolo di umori
sospira e lascia un nodo in gola
si cala nella pancia che sento dissipare
in quel gesto da cui parte il volo.
I Minotauri, narrati dalle ciglia,
sono mansueti al tocco della comprensione.
Non ne ho paura, dovesse anche cedermi la corsa
dovesse inasprirsi il conflitto
d’ogni tuo labirinto.

La chiamano

La chiamano i fiori per diventare polpa
e imbellettare dita di succo opalescente,
la chiamano gli uomini sotto i filari
perché ogni grappolo sia luce di mezzogiorno e trovi tramonto in botte.
La chiamano i bimbi
eccitati nell’impastare castelli con sabbia e libertà,
la chiamano gli ombrelloni a sgranchire le ossa dall’inverno
insieme alla brezza che pettina la paglia in cappello,
dolce frescura per la famiglia al mare.
La chiamano dalla pelle
una miriade di piccole bocche, stanche dei vestiti.

La chiama Dio, sulla pancia delle spighe.

La nost(r)algia (o nostalgia di noi)

Quella vena che baciasti più delle altre
oggi, ci si è insinuata la nost(r)algia.
Avrei voluto vararla
consegnarla alla deriva delle tue menzogne
liberarmene come un foulard superfluo alla pelle.

Pizzica…forse cambierà il tempo fra noi
lembi di una cicatrice che non si rassegna al coagulo.

Pizzica.

Forse muterà il mio ventre
in una culla di legno dove lasciarmi morire
ai rintocchi di una vena d’arpa.